Alberto Rondalli


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Dervis, il derviscio

"Chiamo a testimone il giorno del giudizio
e l'anima che si accusa da se stessa,
chiamo a testimone il tempo, inizio e fine di tutto
che l'uomo è sempre in perdita."


Il Derviscio e la morte
di Mesâ Selimovic'


Dervis, il Derviscio


Regia: Alberto Rondalli
Sceneggiatura: Alberto Rondalli
Soggetto: Alberto Rondalli da "Il derviscio e la morte" di Mesa Selimovic
Direttore della fotografia: Claudio Collepiccolo
Montaggio: Alberto Rondalli con la collaborazione di Caterina Dal Molin
Scenografia: Cosimo Gomez e Luigi Marchione
Costumi: Nicoletta Taranta
Direttore di produzione: Alessandro Calosci
Musiche: Kemal Karaoz e Nehmet Fatih Citlakin
Suono in presa diretta: Antonio Ricossa

INTERPRETI
Antonio Buil Puejo(Nurettin)
Cezmi Baskin (Hasan)
Ruhi Sari (Jusuf)
Basak Koklukaya (Sersen)
Soner Agin (Sinanettin)
Haldun Boysan (Dzemal)
Erdem Ozipek (Muhammed)
Menderes Samancilar (Izak)


Prodotto da
Cinema 11 Undici
Ipotesi CinemaCinema
A.F.S. Film - Istanbul
TELE+
film prodotto con il supporto di
EURIMAGES
distribuzione internazionale RAITRADE
ITALIA 2002



SINOSSI

Ahmed Nurettin, il derviscio, è lo sceicco della tekija (ovvero il capo della comunità civile e religiosa) dell'ordine dei Mevlevi in una cittadina di provincia dell'Impero Ottomano al tempo della dominazione turca, intorno al 1900.Nurettin vive in un suo mondo di certezze assolute e di verità eterne, codificate e sanzionate nel Corano, distaccato dal mondo degli altri uomini, che pure pretende di guidare. Egli rifugge dall'azione, dal concreto e spesso contraddittorio impegno dell'uomo nella storia. un giorno, suo fratello minore viene arrestato senza alcuna colpa.nulla giovano la sua posizione, il suo prestigio sociale, i suoi maldestri tentativi d'intervento presso i potenti - ai quali credeva di essere collegato a garanzia e a tutela dell'ordine e della legge - il fratello viene comunque giustiziato. questo momento in poi, le sicurezze di Nurettin vacillano; spinto dall'odio e da un ossessivo desiderio di vendetta, viene costretto ad agire. La sua diviene una conversione alla rovescia. Una caduta precipite, alla ricerca ossessiva della vendetta. Nurettin fomenta una rivolta, causa la morte di coloro che lo hanno offeso. spirale del potere lo travolge, ed è costretto a operare a sua volta un arbitrio - altrettanto fatale di quello che aveva causato la perdita del fratello - decreta l'arresto del suo unico amico, il nobile Hasan. E' una decisione, quest'ultima, che determinerà il suo ineluttabile destino.

PREMI
*Menzione Speciale della Giuria Giovani al Festival di Locarno 2001
*Miglior Film al Festival del Cinema di Gallio 2002
*Migliore Sceneggiatura al festival del Cinema Indipendente di Foggia 2002



Da “L'ombra scura della religione”
di Stefano Socci
Il cinema e le idee, CADMO edizioni


Dervis, il derviscio di Alberto Rondalli, tratto da un romanzo di Mesa Selimovic, è ancora una vicenda di odio e solitudine, nonostante il protagonista sia uno sceicco della confraternita più pura dei Dervisci. La storia di Ahmed Nerudin (Antonio Buil Puejo) si svolge agli inizi del secolo scorso, nella periferia dell'impero ottomano, in una regione desertica e rocciosa. Il monaco vive poveramente e il suo ritratto è quello di un uomo accigliato e severo, concentrato su certezze assolute e verità eterne. Intorno a lui naturalmente fluisce un mondo crudele e imperfetto. Suo fratello è stato arrestato e ucciso benché fosse innocente, perciò Nerudin si vendica del Cadì, il giudice musulmano, e prende il suo posto; in breve è costretto ad aprire gli occhi sulla realtà da cui si era staccato e a verificare il potere distruttivo delle azioni umane. Nel i frammenti di religiosità islamica sono mescolati con alcune meditazioni sul senso generale della vita che ci sono rivelate mediante la voce fuori campo. Così il protagonista, reduce da un infruttuoso colloquio con il Cadì, riflette cupamente: «Noi siamo il nulla in qualcosa. La terra è inabitabile come la luna e noi ci illudiamo che sia la nostra dimora. [ ...] Forse sarebbe meglio tornare indietro, ridiventare semplice energia». Una frase a cui subito si aggiunge uno scarno dato esistenziale: Nerudin ha quarant'anni, «una brutta età: sei ancora giovane per avere desideri e già vecchio per poterli realizzare».

La crisi del monaco nasce quindi dalle amarezze della vita terrena, dall'angustia e dalla finitezza del mondo secolare, paragonate alla gloria e alla vastità di Dio. Eppure l'ascesi e la disciplina del derviscio, che risponde solo ad Allah e alla sua coscienza, non hanno alcun effetto sulla realtà. Quando il fratello Harun viene giustiziato, Nerudin può opporre, a tale notizia, un insegnamento del Corano, simile a un noto passo della Bibbia ebraica: «Chiunque uccida un uomo che non ha ucciso, è come se uccidesse l'umanità intera». Questo non impedisce che Nerudin sia arrestato e liberato senza spiegazioni. Il regista riesce a suggerire tutta l'ambiguità dell'esistenza posta a confronto con la religione: è Dio che decide come elevare e abbattere l'uomo o è quest'ultimo, ridicolo «nulla in qualcosa», a emulare Dio facendosi destino per gli altri uomini? Il quesito, posto da Rondalli nel quadro immobile e muto della pianura anatolica, trascende l'islamismo e concerne l'origine di qualsiasi pensiero religioso. A quarant'anni Nerudin attraversa una crisi spirituale che confina con l'eresia, ma questa eresia sembra più vicina alla verità dell'apparato esteriore di ogni religione e del modo con cui il potere politico amministra la fede. Veniamo a sapere, di sfuggita, che la madre del giovane derviscio Jusuf, uno scrivano abilissimo, è stata uccisa perché aveva accolto dei soldati cristiani nella sua locanda. L' odio, la matrice arcaica, si contrappone come sempre all'amore, legando un monoteismo all' altro, in una linea di sangue che cristiani o musulmani possono spezzare soltanto con l'esercizio del dubbio. La vicenda di Nerudin curiosamente ricorda quella di Padre Sergio nel Sole anche di notte dei Taviani e, ancora prima, il viaggio del monaco pittore Andrej Rublev nel film omonimo di Tarkovskij. Ahmed, Sergio e Andrej non riescono a capire l'imperfezione umana o, meglio, non sanno giustificare e perdonare neppure quella che individuano in se stessi.


Sono ammalati di monoteismo, di dottrina incrollabile ed eterna; questo li acceca, inibendo loro la visione dell'inevitabile lato oscuro, dato che il regno terribile della divinità assoluta esiste grazie a eccidi, massacri e orrori complementari, vicendevolmente perpetrati dai santi eserciti e dagli scherani delle confessioni antagoniste. Nel caso dei tre monaci -islamico, cattolico e cristiano ortodosso - il volto nascosto di Dio si identifica anche con la crudele banalità degli altri uomini, con la giurisprudenza secolare, con una minuta corruzione che avvilisce lo spirito e destituisce il corpo da ogni sacralità. Rublev, dopo avere assistito alle atrocità di una scorreria di Tartari, si chiude nel silenzio e rinuncia alla pittura, convinto dell'assurdità della comunicazione e della creazione in un mondo dominato dalla violenza, in cui si è perso il valore della vita umana. Scioglie il voto solo dopo la miracolosa fusione di una grande campana a opera del giovane Boriska; questi ha detto di avere appreso il segreto della fusione dal padre morente, ma, riuscita l'impresa, rivela ad Andrej di non conoscere formula alcuna. Padre Sergio, invece, rifiuta il secolo e continua a fuggirlo dopo una delusione d'amore che gli ha svelato le bassezze e gli inganni del potere; si trasforma in un viandante senza meta, di cui si perdono definitivamente le tracce. Nerudin fa disseppellire Harun e celebra il funerale davanti ai fedeli che a gran voce garantiscono della sua bontà davanti a Dio, poi applica una strategia di vendetta coronata dal successo. Nonostante una premessa di fede totalizzante, identica a quelle di Andrej e Sergio, il derviscio rientra nel mondo con le armi del , mondo e diventa qadi. Ha rinunciato alla sua integrità mistica ma solo per sperimentare gli intrighi e il nonsenso della realtà circostante, che subito lo irretisce regalandogli il carcere e la pena capitale. Prima di essere strangolato, Nerudin chiama a testimoni l'alba e la luna, «che l'uomo è sempre in perdita». Il derviscio mostra come una fede cristallina e incontaminata sia impossibile sulla Terra, mentre unica verità del credente diventa l'interrogazione continua sull'essenza divina, il dubbio sistematico più che la peregrinazione di Rublev o la fuga di Padre Sergio. Nerudin ha in comune con loro un'uguale tensione verso il nulla, come se la ricompensa finale fosse per tutti e tre l'evanescenza, il salto nel vuoto, il sublime regresso all'energia primordiale. Questi film, partendo da una base monoteistica di accesso impervio, culminano in un evidente panteismo. La : soave festa boschiva dei pagani che, in Andrei Rublev, viene affogata nel sangue dagli armati di Dio, la giornata serena di una coppia di anziani contadini nel paesaggio aspro e puro della Basilicata del Sole anche di notte, il deserto orientale a cui come roccia probabilmente tornerà Nerudin da morto, sono una prospettiva migliore, un'accogliente, benevola e concreta latenza erotica in cui è più facile collocare il paradiso.



Lietta Tornabuoni (la Stampa)

“Un film assolutamente singolare, tratto dal romanzo di Mesa Selimovic "Il derviscio e la morte" (editore Baldini & Castoldi), una sorpresa autentica nel cinema italiano. Nel mondo islamico, si chiamano dervisci i componenti delle comunità mistiche formatesi verso il secolo XII nell´ambito del sufismo; nel mondo occidentale, i dervisci sono noti soprattutto per le frenetiche bellissime danze in circolo e per il dhikr, la ripetizione in forma di litania del nome di Dio. "Il derviscio" di Alberto Rondalli è la storia di un derviscio che è a capo della comunità dei Mevlevi in una piccola città di provincia dell´Impero Ottomano al tempo della dominazione turca, alla fine dell´Ottocento. Una storia di vendetta, di ribellione all´ingiustizia, di fraternità, che consente di distinguere due aspetti di quella cultura: il pragmatismo rassegnato al Male e il misticismo irriducibile nell´esigere il Bene, l´indulgenza fatalista e la implacabilità fanatica, la moderazione e l´estremismo. Dilemmi certo non estranei a tutte le comunità umane, e che hanno permesso al regista quarantenne nato a Lecco di evitare le banalità del cinema medio. Non si tratta soltanto dell´esotismo del paesaggio (il film è stato girato in Cappadocia), dello stile realistico di costumi, scenografie, sistema di gesti e d´espressioni, della musica opera di compositori dervisci: la profonda originalità sta nel fatto che si tratta di una conversione alla rovescia, d´un percorso dal bene al male, nato dalla negazione della giustizia e senza resurrezione. L´incanto severo e suggestivo del film, l´intensità della narrazione, fanno de "Il derviscio" un´opera notevole e nuova.”

Maurizio Porro (Corriere della Sera)

“In una cittadina bosniaca dell'impero ottomano dominato dai turchi, 1900 o giù di lì, il derviscio, che nell'immaginazione è un sufi, mistico islamico, che danza fino all'estasi, è capo di una comunità religiosa. Le cui sicurezze vengono sconvolte dalla notizia che il fratello minore viene arrestato senza colpa, "kafkianamente": inizia così un processo di conversione alla rovescia, rifiutando di far fuggire il parente per inseguire un ideale di giustizia che lo porterà al sacrificio. Il derviscio, tratto dal romanzo quasi autobiografico (i partigiani comunisti uccisero il fratello dello scrittore Mesa Selimovic) edito da Baldini & Castoldi, è un debutto di gran rigore formale e morale. Una scelta eccentrica, fuori da ogni mediocrità, che fa del regista Alberto Rondalli e del suo protagonista, lo spagnolo Antonio Buil Puejo, due eroi del cinema degli sguardi e del silenzio, bressoniano. Freddo, perfetto, poco Quello che stupisce è quanto il regista lecchese si sia calato in un altro pianeta, firmando una storia universale che in fondo è quella del dubbio dell'essere o non essere, tra azione e pensiero, sfociando nel conflitto tra il Corano e i sentimenti, tra religione e società. Ma il senso del film, dominato dalla bellezza formale e stilistica, in un contesto di realismo pasoliniano, è proprio il dramma della fragilità dell'uomo che si vede crollare il mondo spirituale addosso col protagonista che vive nello stesso tempo nel reale e nella dimensione metafisica, fatta della pasta del cinema.”


Adriano De Carlo (il Giornale)
“ Nel brullo panorama del cinema italiano "Il derviscio" rappresenta un'anomalia che il rigore della rappresentazione e l'ammaliante racconto, ancorché spettacolarmente rinunciatario, trasformano in un'utile riflessione su quello che potrebbe essere il cinema colto. Nella complessa materia, sociale e religiosa, che muove la vicenda, ambientata alla fine del XIX secolo in una cittadina dell'impero ottomano, la distanza culturale dal mondo occidentale sembra ridursi nello svolgimento narrativo. Il film racconta i tormenti di Ahmed Nurettin, "il Derviscio" e sceicco dell'ordine dei Mavlevi, nel periodo della dominazione turca, circa un secolo fa. La sua esistenza vive parallelamente al suo inattaccabile misticismo, fatto di verità assolute, che egli non esita a dispensare al suo prossimo, e legate indissolubilmente agli insegnamenti del Corano. Pur essendo un capo la sua funzione assume una dimensione metafisica, lontano dalle dispute terrene, fino al giorno in cui le vicende della vita lo mettono di fronte a una nuova realtà, più umana, nella quale la sua visione ascetica é del tutto impotente: suo fratello viene imprigionato pur essendo innocente. Nurettin interviene con la convinzione che il suo ruolo gli consenta di potere liberare il fratello, ma i meccanismi complessi che regolano l'autorità di un governo egemone, la doppiezza di alcuni personaggi, rendono vana la sua azione e il fratello viene giustiziato. Qui inizia la trasformazione del derviscio, che rovesciando le sue certezze, concentra le sue cognizioni morali e religiose, trasformandole in azione distruttiva. Usando gli stessi mezzi dei suoi nemici, diventa delatore e fomentatore di rivolta, fino a esserne travolto. L'attento Alberto Rondalli dirige la complessa materia con consapevole rigore. La luce del giorno e della notte sono presenti in alternanza non casuale, rappresentando l'una la conoscenza illuminata da Dio, l'altra l'opposizione catartica alla conoscenza. La fotografia di Claudio Collepiccolo é in tal senso esemplare. L'attore spagnolo Antonio Buil Puejo, nella sua allucinata fissità conferisce alla figura del derviscio il giusto carattere ieratico. Tratto da un romanzo di Mesa Selimovic, "Il derviscio" ricorda il cinema di Bresson, per l'essenzialità delle sue componenti. Un'occasione per chi voglia fuggire dai film bombaroli o stupidi dai quali siamo accerchiati.”

Fabio Ferzetti (Il Messaggero)
Chi ama la Storia e le sfide 'impossibili' non perda 'Il derviscio', girato in Cappadocia da Alberto Rondalli, classe 1960 (...) Soggetto elementare, dunque, e insieme immenso: come battere il male senza usare le sue stesse armi? Colpito negli affetti, anche il giusto tradisce, complotta, manipola. Fomenta rivolte. E finisce travolto. Il tutto in una provincia dell'impero ottomano, in un'epoca remota che invece risulta a cavallo fra '800 e '900. Ma non immaginate battaglie, scimitarre o esotismo. Qui tutto - luci, dialoghi, musiche, paesaggi - emana rigore e rispetto per quel mondo così vicino e così lontano. Oltre a uno sguardo molto bressoniano sulla tormentata interiorità del suo eroe. Intenso, severo, anche arduo. Ne vale la pena."

Fabrizio Croce (Sentieri Selvaggi)
“Rondalli mantiene suoni e colori miracolosamente arcaici evitando qualsiasi calligrafismo. Questi si contaminano con i corpi, i pensieri, le voci degli uomini della Storia. Proveniente da un mondo culturale, ideologico e temporale distante anni luce dalla contemporaneità che stiamo vivendo eppure intriso di suggestioni, interrogativi e dubbi che riguardano la coscienza e la morale degli uomini in tutte le epoche, "Il Derviscio" presenta meriti ancora superiori per la cifra stilistica con cui Alberto Rondalli ha deciso di rappresentare la vicenda:così lo stupore, l'indignazione e i dubbi del derviscio Ahmed Nurudin che nella Turchia dei primi del '900 scopre le contraddizioni laceranti tra i valori della religione musulmana e la legge degli uomini che quei valori dovrebbe far rispettare, vengono fissati da Rondalli nella dolente e riflessiva immobilità delle immagini, nella fermezza dello sguardo che filma tra le secolarità delle dune del deserto la precarietà delle convinzioni e dei valori umani. Ciò che convince particolarmente è la descrizione minuziosa, attenta, infallibile con cui il regista italiano descrive la progressiva crescita nel personaggio di Ahmed Nurudin, un derviscio, colui il quale ha votato la sua esistenza alla parola di Allah, del tarlo del dubbio verso una realtà sempre più sconosciuta, che rivela il volto spietato e occulto dei poteri della polizia e della politica. Come nel romanzo "Il derviscio e la morte" di Mesa , lo spunto kafkiano dell'arresto e poi dell'uccisione per strangolamento del fratello di Ahmed per ragioni che resteranno sconosciute, è un pretesto per rovesciare tutte le prospettive, per le zone d'ombra dove la fede assoluta smette di essere accecata dalla luce del sole e inizia lo spaesamento esistenziale. Suoni e colori rimasti miracolosamente arcaici e filmati evitando calligrafismo si contaminano con i corpi, i pensieri, le voci degli uomini della Storia e la maschera di idealismo, saggezza, purezza del derviscio si sgretola tra i vicoli insidiosi del rimorso e della vendetta. E l'occhio di Rondalli si cala tra la polvere dove si muovono i corpi di quegli uomini e si fissa sul volto potente e marcato dello spagnolo Antonio Buil Puejo(Ahmed Nurudin), ne coglie negli occhi luminosi i lampi di disperazione e poi di rassegnata consapevolezza per il destino di abbruttimento e morte-dello spirito prima che della carne-che lo attende. La fuga è impossibile, non c'è assoluzione o consolazione, la mdp resta immobile davanti al tramonto di un mondo scomparso, dove la forza del valore religioso si disperde remota nelle parole di chi è già l'ombra di se stesso.”


Simona Pellino (FILM)
“Imprigionato tra le maglie di un'angoscia esistenziale che ha le sue radici nella stessa ambivalenza dell'animo umano, condannato al dubbio, quale unica cartesiana certezza in grado di orientare il proprio sguardo, e rassegnato a vivere in uno stato di equilibrio tra la morale degli uomini e i precetti della legge divina, Nurettin è un personaggio tragicamente moderno, come lo era l'Antigone sofoclea: una figura toccante, che nella sua lacerazione interiore incarna a pie- no il dolore di un umanità che non ha ne luogo ne tempo. Curato nei minimi dettagli ma privo di ogni calligrafismo, il film di Alberto Rondalli è un'opera problematica, quasi un filosofico di kierkegaardiana memoria, in cui si assiste alla lenta ma inesorabile presa di coscienza di un uomo, che, posto più volte dinnanzi al bivio della scelta (dimenticare o ricordare, restare o fuggire, credere o non credere), vede crollare intorno a se le fragili architetture dell'etica e della religione. Rondalli restituisce con pienezza figurativa e sintattica il senso di disperazione del suo personaggio. Nurettin, nella sua ricerca verso la verità compie un faticoso viaggio spirituale che procede per tappe, quasi come in una rappresentazione teatrale medievale, un viaggio senza ritorno alla fine del quale giunge alla consapevolezza della sua inalienabile malattia mortale. Per conoscere se stesso e rivelarsi in tutte le sue contraddizioni, il derviscio ha bisogno del dialogo e del confronto con l'altro. In questo contesto, il Magistrato, Hasan, il padre, Jusuf e soprattutto Isaac (che egli incontra sempre nell'oscurità, quasi come fosse una proiezione del suo ego) non sono altri che interlocutori necessari, specchi frapposti tra lui e il mondo. Colto nelle sue espressioni più vivide, simile a un Cristo nato per soffrire sulla croce della propria impotenza, Nurettin ha sempre il volto inquadrato a metà, tra luce e ombra, e il corpo perennemente circoscritto da elementi che sottolineano la presenza immanente di una gabbia al contempo reale e immaginaria. Mura, cancelli, sbarre, finestre alte e strette, porte che si chiudono al suo passaggio. Sono poche le immagini riprese in esterno, ma quelle esistenti non sono meno drammatiche, perche è proprio attraverso questi squarci tra la vastità terribile del deserto che Rondalli esprime, con tutta la sua forza, l'emblematicità di un luogo infinito, dalle infinite possibilità nullificanti, oltre il quale c'è solo silenzio e morte.”

CINEMA SESSANTA (S. C.)
La presenza a Locarno del film di Alberto Rondalli non poteva di certo passare inosservata. Un' opera tanto affascinante quanto complessa, girata peraltro in lingua turca da un autore italiano, costituiva un'anomalia alla quale era difficile non prestare la dovuta attenzione. Rivedendo oggi Il derviscio nella versione doppiata, destinata alle (poche) sale italiane, trova conferma la sensazione avuta all'inizio: perdura l'impressione di un prodotto ostico per il grande pubblico, ma estremamente ricco di significati. Cominciamo col dire che il film di Rondalli è tratto da un romanzo dello scrittore slavo Mesa Selimovic, Il derviscio e la morte. Nel romanzo in questione, Selimovic alludeva a un evento dolorosissimo della sua vita, l'ingiusta uccisione del fratello avvenuta durante la lotta partigiana in Jugoslavia. Si possono intuire le ragioni in base alle quali lo scrittore dovette ricorrere a una simile metafora, per sottrarre a interventi censori la rievocazione di un fatto per lui così atroce e difficile da accettare. Spostando le coordinate spazio-temporali del dramma, il palcoscenico dei tristi eventi venne collocato alla periferia dell'impero ottomano, nell'epoca in cui questo si avviava alla dissoluzione. Nel film di Rondalli si affrontano con decisione aspetti importanti dell' opera di Selimovic, come a esempio l' aspirazione all'universalità insita in una vicenda dai connotati tragici: tale è la caduta di un uomo la cui coscienza vacilla, e il cui animo turbato si rivela incapace di reagire a una prova talmente dura, giunta a coronamento di una cri- si di valori vissuta molto in profondità. Lo sfondo di tale conflitto interiore coincide in parte con l'instabilità subentrata nelle convenzioni sociali di un'epoca, con vecchi e nuovi modi di interpretare i rapporti con il sacro e con l'autorità. Per dare credibilità a tale contesto l' autore ha compiuto sforzi encomiabili, curando nel minimo dettaglio il realismo delle ambientazioni, la verosimiglianza degli atteggiamenti espressi da ogni figura rispetto al proprio ruolo sociale: non si ravvisano forzature nella descrizione dei personaggi, la cui coerenza rispetto alla rappresentazione va cercata non solo nel modo di agire e di mani- restare le proprie scelte po1itiche, ma anche nel modo di vestire, di muoversi, di rispettare codici di comportamento vigenti nel quotidiano. A proposito di questa richiesta di adesione comp1eta avanzata da Rondalli nei confronti degli interpreti, particolarmente degna di considerazione, per intensità e impegno, appare la prova del protagonista, Antonio Buil Puejo, attore spagnolo perfettamente inserito nel cast. Le lacerazioni interiori, create dallo scontro tra ideali di vita acquisiti nel tempo e riflessioni scaturite dall'amarezza e dallo sconforto, diffondono ombre scure sul volto del derviscio. La profondità di queste ferite piega inesorabilmente la volontà di un mistico, che si ritrova a fare delle scelte di cui non si sarebbe mai ritenuto capace. La regia di Rondalli opera con discrezione, trovando tanto negli interni, quanto nei paesaggi assolati, gli elementi giusti per sottolineare le tappe di un percorso tormentato, imprigionato nella forte tensione dialettica tra luce e tenebre.







Danse des sens
Dervis
Entre Gibran et Kafka, une descente aux enfers envoatante

A une epoque où l'Islamest l'objet de tous les amalgames, redécouvrir les beautes et les vertus du Coran fait un bien fou. Surtout quand cette religion se frotte à la lampe philosophique des derviches-touneurs, pacifistes dansant comme des toupies pour entrevoir Allah dans leurs transes. Dans , adaptation du roman yougoslave et la Mort, la danse est celle d'une pensée etourdissante. Sous l' empire ottoman, Ahmed, derviche erudit, respecté pour sa sagesse, distille sa parole entre les poils de sa barbe, tentant de garder bonté et neutralité en toutes circonstances. On se croit dans Prophètede Khalil Gibran, quand l'arrestation absurde du frère d'Ahmed nous plonge dans Procèsde Kafka. Confronté à l'injustice des hommes, Ahmed le juste perd sous nos yeux la sagesse et la foi. Envoùtante, sa descente aux enfers deviendra hypnotique à ceux qui se laisseront charmer par la flùte et les halètements de la bande-son.
MATHIEU DUPONT (ZURBAN)




LA STAMPA TURCA


YENI S
AFAK ( Özlem Albayrak)
“HO VISTO UN FILM...”
... le passioni più oscure, le conversioni verso il male, le debolezze piu comuni, tutto questo appartiene all'uomo... Ed é questo che ci dice “Il Derviscio”. Il Derviscio che ricorda le tragedie di Shakespeare nell'accentuare l'infinito male e bene nell'anima dell'uomo, nel porre dilemmi di coscienza fino ad arrivare al punto di follia, é un film buio. Buio, perché è il buio che fa guardare l'uomo dentro sé stesso, verso gli abissi dell'autocoscienza. Forse il film chiede pazienza al pubblico, come dice certa critica, ma questo é perché questo sguardo affatica l'uomo. Vedere quello che ci sta dentro e sentire un'angoscia simile alla fine delusa del derviscio é veramente duro... poi, non tutte le opere devono correre come quei film commerciali che grazie al televisione e del cinema non ci mancano mai, non é vero?


MILLIYET (Alin Taþçýyan)
“DERVISCIO CHE GIRA ALL'INVERSO”
Il regista Rodalli ha cercato di rimanere fedele al massimo al romanzo, non esitando di usare i dialoghi filosofici. Il ritmo del film aumenta con il crescere del dilemma profondo del derviscio... La fotografia é l'esempio di un lavoro accurato che desta ammirazione. Le ombre sul viso di Antonio Buil Puejo gli danno grande mistero, ed è interessante come la luce crei uno sguardo folle negli occhi del derviscio dopo che la sua anima è diventa oscura...

ZAMAN ( Eyüp Can)
“IL SUFISMO TRAGICO ...”

Proprio nel giorno in cui la Turchia ha ottenuto la data della sua entrata nell'Unione Europea, un film molto interessante, una coproduzione italo-turca, é uscito in 16 sale. Sono tante le caratteristiche rendono interessante il film : prima di tutto l'autore Iugoslavo del romanzo dal quale é tratto il film; il regista Italiano Alberto Rondalli; il direttore della fotografia Claudio Collepiccolo; il protagonistra spagnolo Antonio Buil Puejo. Un'altra caratteristica che fa diventare “ il Derviscio” un film diverso dagli altri é che racconta una storia che va dal bene al male, dalla solitudine al potere. In più, il film é stato realizzato con un perfetto equilibrio tra ambiente-scenografie, luce- fotografia.realta' la storia Ottomana, lunga 700 anni, é piena di storie stupende. Ma non si sa perché, né la letteratura turca né il cinema turco sono riusciti ad approfittare di queste ricchezze... abbiamo davanti una situazione nuova. Stiamo alla porta dell'Europa con un Governo che cerca una sintesi tra tradizione e modernita'. Nello stesso periodo ci confrontiamo con il nostro passato ormai dimenticato, attraverso il film di un regista Italiano, un film che prendendo spunto dal Sufismo diventa un interrogativo universale e che é stato ispirato da un romanzo Bosniaco. “Il Derviscio” é stato realizzato con una sincerita' adeguata ai contenuti. E ora sta cercando in Turchia il vero interlocutore.

YENI SAFAK ( Fadime Özkan)
“L'ESAME DI POTERE DEL DERVISCIO”
Quelli che hanno letto e quelli che non hanno letto la storia del sceicco fragile che si confronta con la vita reale, ora avranno l'occasione di vedere questa storia sullo schermo.

L'occasione ci è data da “Il Derviscio”, un adattamento cinematografico molto denso del romanzo bosniaco, in una coproduzione italo-turca. Il film , nel quale l'attore spagnolo Antonio Buil Puejo fa la parte di Ahmet Nureddin con una recitazione ai massimi livelli, fara' male. La sua controversa umanita', mentre scorre sullo schermo, fara' sanguinare le ferite che in un qualche modo esistono nella realtà di ognuno di noi.

Si potrà constatare che attraverso i dialoghi, le inquadrature nelle quali il contrasto tra giorno e notte esprime la ricerca della giustizia divina e il buio della caduta, ambienti e costumi, la fotografia e le musiche “Il Derviscio” riesce a diventare nella sua complessità, un capolavoro.
“Il Derviscio” é tratto con molto successo e con grande serieta', da un romanzo difficile e complesso. Il film merita di essere apprezzato. Andate a vederlo e ne sarete testimoni.


ZAMAN (Rasih Yýlmaz)
“QUANDO SI ROVINA L'INNOCENZA DEL DERVISCIO...”
Oltre al contesto, anche tecnica del film é importante. Il regista italiano Alberto Rondalli ha fatto la scelta di non fare de “Il Derviscio” un film d'azione...
La scena del dialogo
tra Ahmet Nureddin e Kadý é veramente da vedere. Mentre lo sceicco ed il Kadý citano le frasi dal Corano, si esprime come l'ira e la pieta' di Allah possono essere l'uno nell'altro, e che la capacità di vedere e percepire Allah dipende dalla parte dovesi sta...

(Traduzione di Rengin Arvay)


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